post scritto il 29 giugno 2008
Ultimamente capita che mi venga chiesto se, oltre ai vasetti, vendo anche i semi delle piante che abbiamo in catalogo. Ebbene, no. A volte li raccolgo, così, me li trovo in mano ancora prima di decidere che ne farò, ma si tratta di gesti quasi sovrappensiero – alcune piante porgono i semi in una maniera tanto graziosa che rifiutare è scortesia – che terminano con piccoli regali. Certo, regalare semi è facile ma per nulla innocente, si carica l’altro dell’incombenza del lavoro e delle successive aspettative. Insomma, i giardinieri sono dispettosi e spargono prima di tutto la propria irridente malignità.
Guardando nei meandri della memoria del computer ho trovato l’inizio di un pezzo che riguarda appunto la semina. Lo copio e incollo qui con l’impegno di terminarlo presto.
La semina è un piacere solitario, per me. Molte cose che avvicinano al giardino hanno a che fare con piaceri solitari, piaceri che non ci va di condividere e forse molto del fascino che esercitano gli spazi aperti ha a che vedere con la persona che ne è a capo. Essere a capo di un giardino significa prima di tutto curarsene e avere cura è una mansione di sottile, arbitrario potere. Quello che faccio io è diverso da ciò che fai tu, dalla mano di un altro, e se a Guido piace tagliare la siepe di carpino con le piccole cesoie perché nessuna foglia sia malamente smezzata, beh, Guido ha ragione. Guido è il capo del suo giardino, Federica sceglie solo achillee dai colori decisi, Eugenia non sopporta i fiori della santolina e li taglia appena si presentano – e io semino.
Ogni libro di giardinaggio riserva almeno un paragrafo all’operazione di semina; c’è chi le chiama nozioni, chi parla di tecniche, si tratta in tutti i casi di nozioni di base abbastanza generiche, eventualmente corredate di specifiche. Va benissimo partire da quelle, anche perché se ci si addentra subito nella complessità dell’operazione si offusca il divertimento. E’ bello sapere che si sta compiendo un’azione al tempo stesso antichissima, facilissima e molto complicata, anche se si hanno a disposizione dei banalissimi semi di tagete che germinano a guardarli.
Dirò qui il mio rituale di semina, che senza dubbio presenta affinità con le tecniche di cui parlano i libri – in fondo si tratta pur sempre di semi, terriccio e acqua – ma che, filtrato da una persona, assorbe esperienza, arbitrarietà e consuetudini discutibili.
Dunque, prima di tutto la pulizia. Come quando si lavora in cucina e ci si appresta a dare vita a una pietanza, le mani devono essere lavate di fresco, leggermente profumate di sapone. La cucina linda, pronta ad accogliere le fragranze, gli attrezzi lustri, una fucina di cose belle e buone. Anche il mestiere del giardino può essere così.
Io di solito comincio a metà febbraio a fare pulizia in vivaio. Nelle ore centrali della giornata il sole inizia ad essere generoso. Come un uccello rapace che vede dall’alto una preda e avvicina il suo volo con cerchi sempre più stretti, si abbassa mai perdendo di vista l’obiettivo, ecco, io inizio a sgrossare il lavoro per arrivare alla meta: la semina.
La prima semina arriva attorno al dieci di marzo, forse prima.
– Lavare accuratamente tutti gli utensili con acqua corrente e candeggina molto diluita. Farli asciugare fuori al sole.
E’ molto importante che le placche (alveoli – sono come i contenitori in plastica all’interno delle scatole di cioccolatini, solo bucati in fondo per la fuoriuscita dell’acqua) siano ben pulite e asciutte, lo sporco può essere veicolo di malattie fungine, albergare parassiti e compromettere la buona riuscita della semina.
Mi rendo conto che non tutti a casa saranno forniti di contenitori alveolari, vanno benissimo anche i piccoli vasi delle piantine da orto, oppure le vaschette delle verdure che usano al supermercato (alcune da bucare sul fondo) – io sono più propensa alla prima ipotesi. Nel caso di contenitori troppo grandi, infatti, quando arriva il momento di ripicchettare le piantine e metterle a dimora in un vaso o in piena terra, si rischia di rompere le giovani radici che si saranno inevitabilmente aggrovigliate. Ma, come dicevo prima, ognuno è invitato a provare e trovare il proprio metodo e l’attrezzatura che più lo convince.
Quello che sicuramente non può mancare è un nebulizzatore/spruzzatore/irroratore, insomma, un piccolo marchingegno che nebulizzi l’acqua sulle plantule. Infatti l’errore più comune che viene commesso e che danneggia irreparabilmente la germinazione è l’esagerato apporto d’acqua. Oltre alle placche dovremo quindi smontare e lavare anche il nebulizzatore, in tutte le piccole parti di cui è formato.
Dicevamo della semina e prima di tutto sono comparsi gli oggetti che servono affinché tutto riesca bene e senza intoppi, quindi i contenitori alveolari perché ciascuna piantina si faccia spazio senza dover troppo competere con le altre e un tavolo alto a sufficienza per rendere l’operazione agevole. Per me è sempre importante creare le condizioni di lavoro ottimali per svolgere una data mansione, avere gli oggetti giusti a portata di mano e non perdere tempo e attenzione per cercare all’ultimo minuto questo o quell’arnese. Con la semina è tutto più facile poiché richiede davvero poche cose: semi, terriccio, acqua e un contenitore per mettere tutto insieme; il resto – sole/ombra, caldo/freddo, tempo che passa – non dipende da noi, semplicemente fa il suo corso e si fa un baffo dei nostri mestierucoli.
– Riempire i contenitori di terriccio da semina.
Il substrato da semina è di colore scuro, di tessitura fine, leggero e lievemente umido al tatto. So che è poco ortodosso e fa sorridere, ma il buon terriccio si riconosce “a naso”: se odorandolo profuma di sottobosco sano, pulito e umido allora è un buon prodotto, altrimenti rivolgiamo altrove la nostra attenzione. È molto importante che il sacco che contiene il substrato sia tenuto sempre ben chiuso tra un’operazione e l’altra, ciò ne preserva la lieve umidità; infatti, se il terriccio è completamente asciutto saremo costretti ad annaffiarlo di più, infradiciando troppo i semi e impedendo la necessaria aerazione. Chiudere il sacco serve anche a mantenere l’igiene e la sterilità per evitare la proliferazione di funghi e muffe o la migrazione di semi indesiderati.
A questo punto possiamo compattare leggermente la sommità dei contenitori; può essere utile premere il pollice nel mezzo e creare una piccola concavità, il “letto” del seme.
– Mettere i semi nei contenitori.
Ciascun seme è diverso dall’altro, come ciascuna pianta sarà diversa dall’altra. C’è una grandissima varietà di forme, dimensioni, colori da lasciare stupiti e affascinati e se le mie parole hanno un senso, ecco, desiderano scoccare una freccia empatica verso la materia che vive e ci circonda e che è possibile toccare con mano rispettosa.
La Dierama pulcherrimum fa semi di media grandezza, arancio vivo lucente, piccoli tetraedri perfetti, la digitale è un piccolo seme scuro, invisibile, tondo, che si sparge con facilità anche lasciato a se stesso, i sedum polverizzano semi come sabbia del deserto, la lavanda ha semi neri lucidi con un occhio bianco, profumati, la gaillardia fa dei piccoli proiettili costoluti, l’Alcea ha un seme tondo schiacciato come un bacherozzo arrotolato, le graminacee fanno semi lunghi come fusi, le Compositae in genere fanno dei tubetti rastremati, la Gaura ha i semi grossi e leggeri, eccetera.
La mia regola riguardo al numero di semi per contenitore alveolare è semplice e intuitiva: più sono piccoli più aumenta il numero, se sono medi ne metto tre/cinque per alveolo, se sono grandi ne metto due (nel caso di semi minuscoli, metterli in un foglio di carta ripiegato e farli scorrere fino a destinazione picchiettando leggermente). E poi, più sono piccoli più vanno messi in superficie e coperti con poco, pochissimo terriccio.
– Alzare il tavolo da lavoro.
Forse è un consiglio abbastanza inutile per il neofita che si dedica al giardino per poche ore alla settimana, ma nelle operazioni di rinvaso è molto importante che il piano di lavoro sia alla giusta altezza (90/100 cm). Se lavorate su un piano troppo basso, il dolore alla schiena non vi farà dormire la notte.
Siamo arrivati al capitolo finale della semina, quando terminano i nostri compiti e inizia la parte più difficile: l’attesa. E, nonostante siano anni che semino e spesso si tratta di ripetere più che intraprendere, il rito non ha perso di smalto e continuo l’avvincente ciclo di scelta, prova, nascita o disfatta. Certo, esiste ricoltivare, quelle belle placche che arrivano fragranti dall’Olanda, piene di talee, di novità elette dal mercato, ma perché privarsi di un piacere così semplice? Bello avere in catalogo qualche novità, ma bello anche circondarsi e proporre piante che si conoscono da quando erano piccoli semi.
– Abbiamo messo i semi nella terra, ora occorre coprirli con un leggero strato di terriccio. Come consigliano tutti i manuali, lo strato di copertura deve essere sottile, generalmente proporzionato alla dimensione del seme, vale a dire che più i semi sono piccoli meno li si deve coprire. Il ragionamento è abbastanza intuitivo: interrare in profondità significa che se la pianta arriva a germogliare non riuscirà ad arrivare in cima al substrato; più facilmente esaurirà la carica vitale nello spazio di risalita e avvizzirà prima di aver avuto la forza di affacciarsi al mondo.
Quindi coprire il seminato con il terriccio, livellare e premere leggermente in superficie.
– La placca va posta sopra ad una griglia sollevata da terra per impedire dannosi ristagni d’acqua. Ad esempio si può girare sottosopra una cassetta della frutta in plastica che fungerà da base per i contenitori alveolari.
– Annaffiare, anzi, vaporizzare il seminato. E’ bene chiarire che, finché i semi sono sotto la coltre di terriccio oppure le plantule sono appena nate e quindi piccole in tutte le loro parti – apparato radicale compreso – non bisogna esagerare con l’acqua. La prima volta che annaffiamo è bene “impolpare” il terriccio in modo il più possibile uniforme, ma in maniera lieve, leggera, attraverso un vaporizzatore. Nei giorni successivi faremo in modo che il substrato non asciughi mai.
Io sto molto attenta anche alla qualità dell’acqua che uso, probabilmente per molti sarà un’accortezza eccessiva (che confina col fanatismo, ammettiamolo), ma quando si seminano cose preziose, parimenti bizzose e altrettanto costose, si diventa quasi scaramantici nei propri riti di semina. Quindi se mi vedrete alla fonte a riempire taniche d’acqua, ora sapete il motivo – parlo per i lucchesi.
– Ora occorre trovare un posto per le nostre placche piene di semi e cariche di aspettative. La serra fredda è l’ideale, ma non facciamoci ingannare dal nome, si dice serra fredda un ambiente coperto (nylon, vetro), ombreggiato e posto all’esterno, di fatto può diventare un invivibile forno appena inizia la bella stagione. È un ambiente protetto e riscaldato solo nei momenti di maggior irraggiamento solare, senza ulteriori fonti di calore. Come tutti sappiamo, le serre sono calde finché c’è il sole e diventano fredde appena arriva una nuvola a coprirlo. Ed è proprio questo che desiderano i semi, questa alternanza di caldo e freddo aiuta la germinazione, dovremo quindi cercare di riprodurla nelle semine casalinghe. È per questo che sconsiglio la semina in casa, dove non ci sono sbalzi termici. Ci si può attrezzare una serretta fai da te in un angolo del giardino o sul balcone, l’importante è che sia ombreggiata – non all’ombra, ma protetta dai raggi diretti del sole – e abbastanza grande da assicurare la ventilazione, soprattutto quando le piantine iniziano a crescere.
– Bene, ora aspettiamo vaporizzando.
– Le piante iniziano a fare capolino. I tempi variano moltissimo, alcune annuali si presentano in un paio di giorni e tutte insieme come soldatini, le perenni ci mettono almeno una settimana, di solito due, tre o anche di più. Alcune nascono a singhiozzo, prima poche poi in abbondanza.
La straordinaria variabilità che avevamo visto in nuce nei semi, si traduce nella bizzarria della germinazione e nel successivo dispiegamento del meraviglioso.
A questo punto bisogna imparare a osservare e capire i “messaggi vegetali” – ad esempio se le piantine si allungano troppo (filano) significa che hanno bisogno di più luce – semplici nozioni che si acquisiscono con l’esperienza.
– Quando le piantine saranno alte circa 2/3 cm sono pronte per essere rinvasate. La mia esperienza dice che è meglio rinvasare un giorno prima che uno dopo; le plantule nei contenitori alveolari in serra sono soggette ad ogni tipo di malattia fungina, esiste una vera e propria moria dei semenzali, quindi è bene che le piante raggiungano il mondo esterno in tempi brevi. Alcune, poi, non amano per niente stare in semenzaio (l’ Erigeron karvinskianus, per dirne una) e rimangono basse e stentate pur lavorando nel terreno sottostante, quindi meglio liberarle quanto prima. Altre invece si sviluppano in modo lasco e prostrato sul terreno (i Dianthus, la Gypsophila, eccetera) e diventa difficile estrarle dagli alveoli quando sono più cresciute.
– Estrarle dagli alveoli con molta cautela per non rompere il pane di terra; ci si può aiutare con un lapis a spingere le piantine fuori dai contenitori. Rinvasarle in vasetti non troppo grandi, di solito un diametro 9 è perfetto, in terriccio mescolato con pomice di granulometria fine. Bagnare (questa volta, finalmente, con un normale annaffiatoio) e mettere all’ombra per circa due settimane. Bagnare i vasetti facendo attenzione a non eccedere con le annaffiature – all’ombra le piante mantengono meglio l’umidità e si tratta di piantine appena rinvasate, con un apparato radicale ancora poco sviluppato.
Spostare al sole e buon lavoro!